apipuntura“Ci sono delle api che come secondolavoro fanno le punture agli anziani – Gene Gnocchi”

Nel 1910 Maberly era andato a visitare un suo vecchio paziente che, tre anni prima, aveva avuto un grave attacco di reumatismo e, in seguito, aveva sviluppato artrite cronica. Egli provò cure termali, fisioterapia farmaci senza il minimo segnale di miglioramento… Egli diventò sempre più disperato fino a decidere di abbandonare ognuno di questi trattamenti. Le gambe e le braccia erano fortemente flesse, il ricurvamento su se stesso faceva si che il mento si trovasse all’altezza del petto, non era in grado di aprire la bocca più di 3-4 cm. Il dolore non lo lasciava mai, da uomo positivo e attivo era diventato uno storpio senza speranza… La sera stessa, Maberly incontrò per caso un Esperto d’api, che, dopo aver sentito del caso dell’uomo, disse che quella era proprio una condizione che poteva essere trattata con Veleno d’api. La prima sessione fu tenuta il 30 ottobre 1910… le sessioni si susseguirono con la somministrazione di 18 punture alla settimana… In due mesi il paziente era in grado di alzare la testa, aprire la bocca completamente, i dolori nei legamenti erano quasi tutti spariti” (F.H.Maberly: Bee venom therapy Bodog Beck-medico ungherese Budapest 1871-New York 1942).

Siamo agli inizi del 1900, sono gli anni della guerra, delle grandi scoperte (Banting-Best: insulina 1921, Fleming: penicillina 1929) …. Sono gli anni in cui Philipp Terc, medico austriaco, affetto lui stesso da reumatismi, getta le basi dell’APIterapia, intesa come impiego della puntura d’ape, nel trattamento delle malattie reumatiche. Nei suoi circa 40 anni di professione, Terc si affidò alle api in migliaia di casi arrivando a impiegare fino a 200 punture al giorno per paziente e mai avrebbe immaginato che qualche anno dopo sarebbe stato possibile produrre veleno d’api in forma iniettabile e tanto meno che il veleno d’api sarebbe diventato uno dei rimedi di punta dell’Omeotossicologia moderna.
Il veleno d’api è infatti l’esempio più lampante del concetto omeopatico del “simila similibus curentur – i simili si curino coi simili” (Samuel Hahnemann XIX secolo), ossia, una sostanza che causa una malattia può divenire la cura per la malattia stessa. Le malattie reumatiche sono caratterizzate da edema, infiammazione e dolore; la puntura di un’ape può causare gli stessi sintomi, quindi la somministrazione del veleno a dosi infinitesimali cura quegli stessi sintomi che causerebbe a dosi molto maggiori (ponderali).

Il veleno d’api, noto anche come apitossina, è un liquido limpido e incolore dapprima dolce poi amaro, solubile in acqua ma non in alcool, resistente sia alle basse che alle alte temperature, prodotto dall’apparato velenifero delle api operaie per miscelazione di secrezioni acide e basiche. Il risultato è una soluzione decisamente acida con un Ph compreso tra 4,5 e 5,5, una densità pari a 1,13 e una composizione chimica estremamente complessa, fatta oltre che di acqua (90%), glucosio, fruttosio e fosfolipidi, di almeno 18 componenti farmacologicamente attivi tra cui enzimi, peptidi e ammine.
Il polipeptide di riferimento, la melittina, presente per circa un 50% è un potente agente antiinfiammatorio, inibitore del sistema nervoso centrale, antibatterico ed emolitico; a seguire fra i più significativi, l’adolapina (ca 4%) che esplica principalmente un’azione
analgesica, l’apamina che stimola la produzione di cortisolo e la trasmissione nervosa e il cardiopep con marcati effetti stimolanti sul cuore e allo stesso tempo anti-aritmici.
Per l’uomo, come vittima di puntura d’ape, i componenti più preoccupanti sono quelli di natura enzimatica: la ialuronidasi polimero antigenico e anafilattogeno (ca 2/3%) che scindendo l’acido ialuronico indebolisce il tessuto connettivo facilitando la diffusione del veleno nei tessuti punti, la FosfolipasiA2 (ca 10%) che provoca rilascio di istamina, abbassamento della pressione e ritardi nella coagulazione e in quantità minore istamina (2% max) e dopamina (1% max).

Gli effetti del veleno sull’organismo sono molteplici e sicuramente è impensabile standardizzarli; al di là infatti della composizione dell’apitossina, un ruolo non trascurabile lo gioca l’organismo punto, la sua sensibilità e il suo stato di salute. A questo proposito ho trovato molto interessante e consiglio, a chi ancora non ha avuto occasione, di leggere un capitolo del libro “Apiterapia” di Bodog Beck: “punture d’api: effetti e rimedi” dove vengono riportate alcune esperienze dirette, alcune osservazioni sui vari fattori esogeni (età e tipo di ape, periodo dell’anno, composizione del polline, zona di bee-stingpuntura e profondità… ) ed endogeni (età, sesso, vizi, reattività della vittima… ) che possono entrare in gioco nel momento in cui si viene punti nonché eventuali approcci per minimizzare sia gli effetti locali sia quelli generali, partendo da un vecchio detto “Rimuovi il pungiglione, non strofinare e dimenticalo”. Sostanzialmente l’apitossina causa sull’organismo umano tre effetti; un effetto neurotossico a livello di struttura nervosa centrale manifestabile come dolore a livello vertebrale fino a paralisi transitoria o permanente; un effetto emorragico (caratteristica più saliente) che ha come campo d’azione non solo tutti gli elementi del sangue ma anche i capillari che divengono permeabili al sangue stesso (da qui il consiglio di non strofinare mai una puntura d’ape) e in ultimo un effetto emolitica livello di globuli sia rossi sia bianchi.

Ma in che modo questi effetti possono essere utili nel trattamento delle malattie reumatiche?
Le malattie reumatiche sono un gruppo piuttosto ampio ed eterogeneo di sindromi acute e croniche che originano da processi infiammatori/ autoimmuni (artriti), degenerativi (artrosi), metabolici (gotta).
Mentre artrosi e gotta hanno un’origine e una localizzazione per lo più costante legata all’usura delle articolazioni con interessamento in genere di mani, piedi, ginocchia nel primo caso e a un deposito di cristalli di acido urico a livello delle articolazioni soprattutto del piede (alluce) nell’altro, l’artrite ha origine ignota, non ha specificità d’organo arrivando a colpire indistintamente diversi distretti ma soprattutto non ha età.
Il malato artritico è un soggetto che mostra una ridotta se non scarsa circolazione, conseguentemente un ridotto apporto di ossigeno e una degenerazione tissutale, una temperatura corporea periferica più bassa rispetto all’individuo sano e un elevato stato infiammatorio che sfocia nel caratteristico dolore. Nelle forme più lievi l’irrigidimento presente al mattino tende a scomparire con il movimento.
In questo quadro il veleno d’ape accelera e potenzia la circolazione, dilata i vasi capillari e li rende permeabili al sangue inducendo un aumento del metabolismo e dell’apporto di ossigeno e quindi un ripristino del normale stato fisiologico. L’effetto analgesico è probabilmente legato, oltre che a un aumento nel rilascio di cortisolo, anche a un blocco nella trasmissione nervosa.
Il trattamento delle patologie reumatiche con veleno d’ape, preferibilmente sotto controllo medico, si sviluppa attraverso fasi successive variando dosi e tempi sia in funzione del tipo di patologia che si sta trattando sia in funzione della risposta dell’individuo trattato.
Nella maggior parte dei casi il primo giorno è buona prassi effettuare una sola puntura di prova per verificare la sensibilità del soggetto nelle ore e nei giorni successivi, dopodiché inizierà la terapia vera e propria. Un approccio standard prevede l’applicazione di una media di 4-5 punture d’ape per seduta, 2-3 volte a settimana per circa 10 sedute (Dott. Feraboli – Divisione di Ortopedia
– Azienda Ospedaliera di Cremona).

Molto più semplice è invece l’impiego di unguenti a base di veleno d’api, soprattutto per le forme lievi e localizzate, da frizionare direttamente sulla zona colpita più volte al giorno; alcuni suggerimenti utili li potete trovare su “Apiterapia” di Cristina Mateescu.

Infine c’è chi della puntura d’ape ne ha fatto un primato; Johannes Relleke nel 1962, presso la miniera di stagno Kamativi (Zimbabwe ex Rhodesia), fu attaccato da uno sciame di api selvatiche, gli furono estratti ben 2.443 pungiglioni… Johannes Relleke, sopravvissuto, attualmente vive in Australia (www.guinnessworldrecords.com).

a cura della dr.ssa Enrica Baldazzi, farmacista. Articolo pubblicato sulla rivista l’Apis di marzo/aprile 2017

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